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inaugurazione venerdì 14 ore 18.00
MARCO MENEGUZZO
The Outer Space
Il luogo del linguaggio
Il territorio della pittura è infinito e al contempo “certo”. Nonostante l’impossibilità – manifestata durante tutta la Modernità – di raggiungerne i confini definitivi, la missione di chi ne analizza le possibilità è comunque quella di cartografare le regioni più estreme, solo per scoprire che ve ne sono altre ancora oltre.
Non è un atteggiamento razionale: è un atteggiamento umano, cioè qualcosa di molto più complesso, che alla base ha una necessità personale, intima, si direbbe psicologica, ma di quella psicologia collettiva, archetipica, junghiana più che freudiana. In altre parole, assomiglia a un rito che qualcuno deve continuamente officiare, sapendo esattamente che il mistero deve restare tale, ma che durante il rito piccoli segnali rivelano la presenza immanente di questo. Per simili ragioni si può accettare l’esistenza e la persistenza di una pittura che un occhio e una definizione generalizzanti definirebbero “monocroma”, e soprattutto si può comprendere come in ogni generazione di artisti ci sia qualcuno che ha la vocazione a questo particolare sacerdozio, che ha sì della sue ragioni storiche, ma che affonda le sue radici nell’individuo, nel Sé: se gli anni Settanta hanno visto una folta schiera di pittori analisti, oggi ve ne sono infinitamente di meno (complice probabilmente l’invadenza pervasiva del quotidiano nella nostra vita, e la mancanza di novità della ricerca), ma è difficile pensare che scompariranno del tutto. Tutte riflessioni che vengono dalla pittura di Domenico D’Oora e dalla sua dichiarazione di poetica “Vista della vista”, pubblicata nel 2009.
Di più, quello scritto suggerisce anche motivazioni che hanno a che fare con una sorta di “consolazione della pittura” che ho sempre pensato fosse l’atteggiamento fondamentale, la pulsione prima di tutti coloro che agiscono con queste modalità pittoriche. Nel primo paragrafo si è parlato di un territorio “certo”, cioè di un ambito di ricerca che, a dispetto della sua infinitezza e della sua coazione a ripetere con varianti sempre più infinitesime, elargisce il dono incommensurabile dell’assoluta lealtà, della certezza di una relazione – tra pittore e pittura – che non può essere intaccata da nulla, e tantomeno dall’irruzione volgare della realtà (per quanto reale sia l’oggetto quadro, la pittura, eccetera…). Il pittore smette i panni della quotidianità ed entra in una sfera diversa, fatta di relazioni sconosciute ma mai deludenti, perché il “luogo del linguaggio” – così si potrebbe definire in alternativa quel territorio – non prevede il tradimento o, almeno, non lo prevede da parte del linguaggio – cioè della pittura – , mentre la scelta è sempre nelle mani dell’altro soggetto, del pittore. Una condizione di assoluto controllo che ripaga di quella vocazione ascetica e solitaria, che per altro appartiene quasi sempre all’indole di chi dipinge in questo modo.
Ovviamente, non si può dismettere del tutto la relazione con il reale o, meglio, con la realtà, e anche D’Oora non può e non intende farlo: addirittura, in questo ultimo periodo, con le sue disseminazioni, composizioni di tavole o tele sulla superficie, sembra cercare quella membrana osmotica che collega i due mondi. Dopo aver sperimentato la formazione “classica” del dittico, che è sinonimo di comparazione, D’Oora si è avventurato oltre, in un’altra porzione di territorio apparentemente simile, e certamente imparentata col concetto di dittico, ma più aperta e dinamica. Di fatto, disseminando le sue superfici (ben rilevate e, dunque identificate come oggetto-quadro, come opera) sulla superficie del mondo (identificata semplicemente col muro che fa da supporto e da sfondo), si crea quella relazione per cui gli spazi tra le opere non sono più neutri, ma diventano una specie di tessuto connettivo tra i quadri, simile a ciò che è il mare per un arcipelago (e non siamo sicuri che in questa metafora il mare, cui attribuiamo tendenzialmente più importanza che alle isole, se non altro per la sua vastità, sia rappresentato dagli spazi bianchi del muro: potrebbe anche essere il contrario). L’intorno dell’opera diventa improvvisamente importante, perché eccitato dalla presenza dell’opera: ecco allora che quello che sembrava il sistema linguistico più chiuso e autoreferenziale si proietta fiduciosamente e senza reticenze verso l’esterno, verso quello che uno scrittore di narrazione fantastica chiamerebbe “the outer space”.