Un’opera non dovrebbe mai essere comparata ad un’altra, in quanto ognuna ha in sé un carattere specifico e speciale. Esistono però delle “affinità elettive” che ci invitano a verificare non l’equivalenza (perché, come raccomandava Goethe, «se si segue troppo l’analogia tutto coincide e s’identifica») bensì le propaggini tra opera e opera, così come tra artista e artista.
In modo simile ma nient’affatto identico, Karin Radoy e Klaus Staudt dimostrano come sia possibile esprimere la complessità dei minimi termini. Il loro è un operare che concilia il “meno possibile” con “qualcosa”. Le pratiche (ovverosia le problematiche) del fare e del pensare in termini di pittura finiscono per questionare sul purismo e sull’aspetto proteiforme dell’arte. Radoy e Staudt intrattengono con il mondo delle idee un rapporto basato su forme e volumi primari che si animano di tensioni e suggestioni interne. Perdura nell’estetica dei due artisti un rigore minimalista e un maniacale perfezionismo che finisce per assecondare un personalissimo esprit de géométrie. Combinazioni e variazioni sono solo alcuni dei fattori che concorrono alla definizione di queste loro pitto-strutture che indagano il rapporto tra le superfici, le forme e i colori, alla continua ricerca di una definizione spaziale.
Nonostante Staudt abbia spinto i valori percettivi al limite dell’azzeramento (senza necessariamente votarsi alla negazione) tale processo-eccesso di esacerbazione rifiuta la contemplazione statica e passiva, esige viceversa una visione dinamica da parte del fruitore, il quale “interpreta” il movimento indotto dai prismi e dai poliedri; cadenzati in modo regolare, i rilievi incolori generano delle concatenazioni-costellazioni che fluttuano sulle lastre di plexiglas. L’opalina trasparenza del supporto permette di creare profondità diverse, ma soprattutto consente uno scambio da un piano fisico a un piano immateriale. Da quando ha deciso di neutralizzare il colore, Staudt ricorre ai notori del bianco per scandire l’ordine/ritmo e la misura/partitura delle proprie opere. Com’è ovvio, si tratta di un bianco assoluto, dominante, che racchiude in sé l’idea trinitaria di luce-spazio-mistero.
Alle deduzioni ottiche di Staudt fanno eco le sensibilità cromatiche di Karin Radoy. Assecondando un processo di mitosi, l’artista realizza dei dittici di grande finezza e leggerezza; i volumi – minimi eppur evidenti – modulano il colore, che sembra “emanare” dalle stesse strutture anziché essere dipinto sulla loro superficie. Con essenziali ma efficaci scarti cromatici, l’artista ridefinisce l’epidermide della pittura, che pur perdendo aderenza con la realtà si rafforza sul versante della percezione e delle suggestioni. La pratica pulsionale e desiderante è il movente di tutta la ricerca di Radoy: la sua alta intensità e densità cromatica si riconduce a una pratica elementare, in cui il murmure della pittura inclina a un’esperienza che pretende d’essere sia piana che spaziale.
Poiché da una stessa causa possono derivare due o più effetti, le opere di Karin Radoy e Klaus Staudt si incontrano in un point de résistance che sancisce un rapporto di reciprocità e allo stesso tempo di antitesi, all’ex-primere di Radoy corrisponde infatti l’im-primere di Staudt: più “sentita” la prima, più “pensato” il secondo. Visive come pure intensive, le opere dei due artisti rifiutano l’ornamento per sondare gli aspetti tecnico-analitici della pittura. Metodo e coerenza denotano gli aspetti salienti della loro estetica, tesa a sfidare la grammatica di base dell’arte che è anzitutto, e soprattutto, ispirazione, ma anche incanto.