In un universo all’improvviso privato di illusionie di speranze, l’uomo si sente straniero. Questo esilio è senza via d’uscita perché privato dei ricordi di una patria perduta o dalla speranza di una terra promessa. Questo divorzio tra l’uomo e la sua vita, tra l’attore e la sua scena, è propriamente il sentimento dell’assurdità.
Albert Camus, Il mito di Sisifo
La storia dell’uomo può sempre essere ricondotta alle architetture che ha saputo inventare, ai recinti che ha costruito, all’organizzazione degli spazi sociali e di vita. L’opera di Enzo Gagliardino parla di questi luoghi, che non vanno confusi con i non luoghi (non-lieu) di Marc Augè che non raccolgono l’identità, che sono paesaggi mutanti, luoghi legati al transito, al trasporto o al tempo libero di massa. In questo caso Gagliardino si è soffermato su luoghi fortemente connotati antropologicamente, spazi storici, altamente relazionali, con contenuti forti. Questi erano ai suoi esordi dell’attività artistica le sale d’attesa, le mense, le palestre, gli ospedali in cui le tracce di umanità che le attraversano sono indelebili. Edifici che riguardano l’architettura, ma soprattutto sono legati alla vita quotidiana della gente, ai momenti di esclusione provvisoria magari dalla società, alla sofferenza, ad una vita comune spesso forzata, e massificata. Dopo il 1976 il centro dell’attenzione dell’artista si è spostato verso i luoghi di detenzione, le carceri che non hanno mai la visionarietà labirintica che abbiamo imparato dal Piranesi, ma sono luoghi tristi e tetri, senza alcuna proiezione immaginativa. La pittura di Enzo Gagliardino ancora di più diventa dura e burocratica, non mostra cedimenti senti- mentali, apre alla tragedia dell’uomo contemporaneo ma senza lacrime e sangue. È una pittura del silenzio, partecipa alla tristezza di tante situa- zioni umane come una forma con- temporanea di meditatio sulla morte e il tempo che non sempre trascorre come dovrebbe. È anche una pittura fredda senza essere mai di- staccata, lontana da quello che rappresenta, malinconica e lucida. Gli spazi concentrazionari, i manicomi come il loro complementari letti di contenzione sono simboli legati alla cultura dell’esclusione e della protezione della società nei confronti dei devianti, di tutti i tipi.
Non a caso quindi le architetture degli anni ’80 sono apparse una sorta di liberazione, di apertura verso l’esterno, il paesaggio seppur urbano, periferico, connotato da lunghe sequenze di mattoni condensate in fabbriche e altri non luoghi della produzione e del lavoro. Questo è l’universo fobico e ripetitivo del pittore che ha anche trovato incredibilmente degli sprazzi di cieli e di nuvole. Eppure queste tracce di azzurro Gagliardino le ha mostrate non direttamente ma in tralice, come emergenze casuali, non volute, oppure come riflessi nei vetri degli edifici industriali. La Natura è un incidente che turba talvolta la regolarità e la tetraggine delle architetture, non è autonoma, ma secondaria, qualcosa da non tenere conto, che esiste malgrado la si sia messa da parte ed esclusa dall’universo umano.
Enzo Gagliardino porta all’estrema conseguenza una pittura che è precisa e perfetta senza essere iperrealistica e non affonda mai nelle levigatezze della Pop. Non vi è un elogio della realtà come siamo distanti dall’esigenza di un realismo che sia descrittivo. I mattoni prendono le intere superfici pittoriche, le finestre sono delle finte aperture sia per la loro tetragona opposizione all’esterno, sia perché diventano solo dei corollari della parte muraria che rimane assoluta, degli elementi di decoro la cui funzione sembra dimenticata. Non vi sono neppure degli elementi di riferimento di arredo urbano così come non vi sono marciapiedi, lampioni altre altre cose “normali” del genere, auto parcheggiate, fermate di autobus e metropolitane, qualsiasi cosa possa richiamare la presenza umana. Gli edifici scanditi dal ritmo infinito e indefinito dei piccoli mattoni marroni sono tutto quello che c’è. Le ampie finestre sono soltanto dei ricordi consolatori di un rapporto tra dentro e fuori che può essere solo immaginato e supposto. Hanno una funzione, ma non uno scopo. Gagliardino affida alla pittura come ha sempre fatto l‘idea che la costruzione logica del mondo sia stata già fatta e a noi non ci resta che guardarne il risultato. E questa volta la pittura non è consolatoria, non porta nulla sul piano della metafora, della simbolizzazione che distanzia l’arte dalla realtà. La qualità del dipingere viene messa al servizio di una visione chiusa del mondo, di un’angoscia esistenziale che non si apre nemmeno lontanamente alle atmosfere malinconiche e alcoliche del “Black Hawk” di Eduard Hopper. I giochi sono fatti e lo sono per sempre, non vi sono altre possibilità, altre aperture. L’unica cosa che ci resta da vedere è il muro, the wall, con il dubbio che non sia rimasto nulla né prima né oltre. Il linguaggio asciutto, impietoso, definitivo della pittura di Enzo Gagliardino non vuole aggiungere nulla a quanto sappiamo, né vuole ricamare sull’esistenzialismo come filosofia abbastanza demodé anche se imprescindibile per capire il Novecento appena trascorso. Non siamo alla tragedia, non vi sono drammi in corso se non quello banale del male di esistere. La stessa pratica pittorica lenta, precisa, estenuante, fa capire come l’artista segua una disciplina rigorosa e monacale. La coazione a ripetere è un modo per mettersi in sintonia con quello che dipinge, non vi sono altri universi, non vi sono scorciatoie. Il muro, l’edificio industriale non è un simbolo legato alla storia della sociologia, è un assoluto come la scelta del linguaggio da parte di Gagliardino. La Fabbrica illuminata (1964) di Luigi Nono è un ricordo di altri tempi, altre utopie. La coerenza è totale, il rispecchiamento coinci- dente, fare, vedere, vivere, sono la stessa cosa. Forse anche dipingere è una religione, una liberazione falsamente promessa.
Il mattone diventa l’unità di misura della non felicità, di una condizione invalicabile dello stare al mondo, senza alternative e senza speranze. Essere e vivere fuori con la nostalgia del vivere chiusi nell’interno di un’abitazione e stare dentro casa sognando il mondo esterno. Probabilmente una pittura così ossessiva ha un senso proprio per la sua metodica, per la sua direzione obbligata, continua: ripetersi è un tentativo di perdersi e dimenticarsi. Un modo per cercare di comprendere la condizione umana passa attraverso questa ricerca interiore e vengono in mente altre ricerche analoghe, altre immagini che la letteratura ha reso universali dal deserto di Dino Buzzati allo Stato d’assedio di Albert Camus, dal Castello di Kafka agli innumerevoli labirinti di Jorge Louis Borges. L’impossibilità di trovare delle soluzioni non impedisce di continuare a cercarle, sempre, all’infinito. Non sappiamo se e dove il muro finisca e neppure da dove abbia avuto origine. La sua esistenza è tutto quello che interessa e si deve sapere.