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OPERE
Jorrit Tornquist
A ogni causa corriponde un effetto ottico
a cura di Alberto Zanchetta
Bernard Maitte si è chiesto come mai i colori possiedono «un’esistenza propria quando manifestano una tale variabilità?». A confermarcelo è Josef Albers, che in un suo libro scrive: «nella percezione visiva un colore non viene quasi mai visto come è nella realtà fisica. Questo fa sì che il colore sia il mezzo più relativo in campo artistico». Anche Jorrit Tornquist si è interrogato e ha deliberato in tal senso. Poiché non esistono domande sbagliate o risposte più giuste di altre (giacché ci sono solo circostanze discordanti), l’artista ha cercato di fare esperienza, interpretare e rielaborare i dati sensibili in suo possesso. Da ciò deriva una polarità in apparenza inconciliabile, quella cioè che vede contrapposti i “colori organici” e i “colori culturali”. In pratica Tornquist è giunto a composizioni pittoriche che in realtà sono [s]composizioni cromatiche e materiche. E non a caso, perché la materia è l’unica in grado di rendere visibile il colore.
Tornquist concepisce il colore come frequenza elettromagnetica e la luce come veicolo di informazioni oltre che di sensazioni; ne consegue che interpretando la materia-mondo l’artista non fa altro che sondare la “scala tonale dei sentimenti” (non uno spettro cromatico ma, come direbbe lui, uno spettro orchestrale). Nella seconda metà degli anni Sessanta, Tornquist abbandona lo scientismo formale per dedicarsi a un’estetica sensoriale. Dalle teorie passa al mondo delle regole non scritte, ovverosia passa dalle motivazioni alle emozioni. Scrive l’artista nel 1977: «il colore comunica i sentimenti tramite la strada diretta della percezione sensitiva senza la necessità di dover ricorrere alla coscienza. Il colore agisce sui sentimenti e così influenza il nostro stato biologico». Le investigazioni cromatico-emotive di Tornquist coinvolgono il mondo che ci circonda, con le sue trasparenze, dissolvenze, saturazioni, vibrazioni. Spesso e volentieri l’artista si è ispirato agli effetti atmosferici, i quali generano un “filtro” con cui noi intendiamo – anziché identificare – il colore. Si veda a questo proposito il polittico Quattro stagioni del 1974, in cui l’artista associa inverno-primavera-estate-autunno ad altrettante suggestioni naturali, ognuna delle quali è stata codificata secondo la tavolozza pittorica. Sappiamo bene quanto sia mutevole la percezione di uno stesso paesaggio, in diversi periodi dell’anno così come in determinate condizioni climatiche o in base al nostro stato psico-fisico. La canicola estiva, le intemperie, il tasso d’inquinamento, durante stati di alterazione di coscienza, in piena luce o nei coni d’ombra, alla mattina quando siamo riposati e vigili, oppure alla sera quando la vista è affaticata: sono alcuni dei casi indagati da Tornquist. Come a dire che a ogni causa corrisponde un effetto [ottico].
Le opere di Tornquist ci restituiscono una memoria, un clima, un’atmosfera. Ovviamente l’artista non si è limitato alla geometria logico-sensoria per convertire il visibile in scacchiera o raggiera, in moduli o sequenze, in emissioni o propagazioni; l’artista ha anche convertito il colore in uno spazio vitale, mettendo in relazione il visivo con il vivibile, l’essenziale con l’esistenziale. Risale al 1966 il suo primo intervento ambientale-urbano, il primo di una lunga serie che intende rendere meno greve l’architettura, immergendola nella luce-colore. Non contento, Tornquist ha sublimato la realtà relativa in relazione duale: al fruitore viene infatti riassegnata la sua centralità, il ruolo di soggetto percipiente che concorre a completare l’opera. Proprio come i colori, anche il fruitore diventa “complementare” all’arte.
All’interno dell’ampio ventaglio di stimoli-situazioni che il mondo ci riserva, la percezione non può che essere soggettiva, influenzata dall’esperienza individuale, da giudizi o situazioni pregresse, dal proprio stato emotivo e psicologico. Ogni percezione è un caso a se stante, potremmo altresì affermare che ogni percezione è singolare nella sua pluralità. Ciò vale anche per queste opere, in cui i colori appaiono e si dissolvono, sbiadiscono o si vivificano. Sono lucenti, splendenti, opachi, indistinti. Jorrit Tornquist è un cacciatore di arcobaleni che ha candidamente ammesso: «Io proprio non so spiegarvi come lavoro». Or dunque, perché noi dovremmo sforzarci di capirlo? Se l’artista vuole riacquistare una propria intelligenza emotiva, anche noi dobbiamo fare altrettanto. Non è indispensabile capire, ma è fondamentale percepire.