«AGIR SUR LA TOILE»
Alberto Zanchetta
Ogni origine dovrebbe avere una sua logica premessa, un’ouverture che segni il termine dell’opus incertum per procedere nella tappa biologica della forma, verso l’autonomia e la maturità dell’opera d’arte. La vita di tutti gli artisti è caratterizzata da una scena battesimale e quella di Michael Rögler sembra essersi principiata nell’Atelier des Nimphéas di Claude Monet. Al Maestro di Giverny si sono ispirati moltissimi altri pittori, si pensi ad esempio agli acquatici di Mario Schifano, che in un album da disegno aveva incollato una riproduzione delle Ninfee apostrofandole con la scritta «ora sono mie». Al senso di possesso di Schifano si contrappone il senso di immedesimazione di Joan Mitchell, la quale ha saputo mitigare l’irascibilità dell’action painting con il luminismo impressionista. Seguendo le orme di Monet, Joan Mitchell aveva deciso di lasciare l’America per trasferirsi a Vétheuil, il villaggio di campagna alle porte di Parigi, non lontano da Giverny. Alla gesture painting degli americani ha guardato con attenzione anche Rögler, trovando però la forza di reagire e di differenziarsi. Rispetto agli ardori dell’espressionismo astratto, l’artista ha infatti scelto per sé l’allure di una “fluttuazione permanente”.
Quando decora l’Orangerie, Monet è quasi cieco, attende di sottoporsi a un’operazione chirurgica per eliminare la doppia cataratta. I disturbi associati alla percezione dei colori lo costringono a inventare le tinte, creando audaci contrasti. Interrogato sul pittore delle Ninfee, Odilon Redon aveva detto che «cercava sempre l’effetto di un colore accanto a un altro colore… Però, quanto cambiano i toni nei suoi quadri!». Anche la ricerca di Michael Rögler è incentrata sul “tono” e sul “tocco”: la sua è una pittura a metà strada tra l’atarassia e l’ebbrezza del gesto (essenziale e sintetico) che si produce in un’emissione/impressione di luminosità. L’impalpabile forma-luce ottenuta da Rögler rivela trasparenze e opacità da cui si sprigionano energie corpuscolari che sembrano consegnare le proprie opere all’incorruttibilità dello sguardo.
Affrancatosi dall’eredità modernista, Rögler ha inteso sublimare-trasfigurare la natura in colore puro, o più precisamente in “pura luce”. Una natura filtrata, edulcorata dal soggetto floreale, eppure in essa permangono – come vivide memorie – il rosso dei gerani, il rosa delle azalee, il viola dei glicini, il bianco-oro dei narcisi, il giallo-blu delle iris. La gamma dei dipinti non si esaurisce qui, vi si possono riconoscere i colori dei tulipani, delle rose, delle campanule, dei gigli, degli anemoni, delle genziane. Ars addit naturae: quella di Rögler è una pittura disambientata, spazio sensibile in cui la sostanza del tegumento aspira alla sensualità coloristica. Ebbene, l’artista non abolisce l’immagine ma la rende indeterminata, ne fa un vaporoso, vibrante, campo cromatico.
Pura luce si è detto poc’anzi, ma forse potremmo osare oltremodo, mutuando l’affermazione in “piena luce”. I dipinti indugiano verso una réaction poétique che soggioga l’anima: istanti situazionali in cui le stille di luce eccitano lo sguardo, quel tanto da desiderare di vedere meglio, e di più, e ancora (non ci si può limitare a guardare queste opere, è necessario scrutarle in profondità). Le tele di Rögler sono un invito a esplorare un paesaggio giunto alla sua massima rarefazione; è come se l’artista fosse riuscito a dar corpo a una sorta di “tentazione del nulla” che diventa improvvisamente reale e densa di significato.
La trepidazione naturalistica – che in Monet si esternava in quella sua tipica instabilità – trova in Rögler una tensione che si dibatte tra staticità e movimento. Tremuli e ondivaghi, i colori hanno disincarnato il protocollo figurativo per abbracciare l’ortodossia dell’infigurabile. Rögler crea superfici piane, aprospettiche, che permettono allo spettatore una doppia visione, “in volo” e “in immersione”. Di fatto è possibile guardare le opere da lontano, per coglierne la plenitudine, oppure decidere di avvicinarsi, per smarrirsi negli impasti della pittura. La frantumazione della visione permette all’occhio di divagare sulla tela, inseguendo cromie intermittenti e lucori sfuggenti. In realtà non stiamo guardando forme ma forze [significanti] che indagano i problemi strutturali dell’ars picta.
Le opere di Rögler accettano la fatidica consegna al silenzio. La sua arte è un autentico atto d’amore per la pittura, intesa in senso esistenziale. Votato a una disciplina che rende ogni elemento solenne, l’artista trascende i limiti della natura, del visibile, per farsi ordine mentale, raziocinio che dipende solo da se stesso («Les peintres ne doivent méditer que les brosses à la main» sentenziava il Porbus di Balzac). Pare quasi di trovarsi in una camera anecoica in cui i rumori provenienti dall’esterno non riescono a intaccare la concentrazione.
Nella lingua tedesca, la parola “arte” [kunst] deriva da “sapere” [können]. Un sapere che è anzitutto empirico, perché in pittura il gesto e il pensiero si sviluppano all’unisono. Si convenga che la pittura non la si può semplicemente apprendere in forma teorica, né la si può insegnare o tramandare verbalmente, è necessario viverla in prima persona, facendone esperienza diretta. In questo senso, Michael Rögler obbliga la quidditas della pittura a riflettere sul suo farsi, per stratificazione e sedimentazione.
Heinrich Wölfflin sosteneva che «ogni stile ha il suo barocco». Per meglio definire che cosa egli intendesse per barocco si serviva di aggettivi quali pastoso, succoso, molle, insistendo sopratutto su un atteggiamento aperto allo spazio e ai sensi. Anche Rögler ha trovato il suo barocco, che potremmo definire “sapido”, ossia vivace e arguto rispetto al genere della Pittura analitica cui appartiene. Con un’incrollabile fede negli strumenti del mestiere, l’artista ha saputo vaporizzare la pennellata, accordandole un particolare “alone” di mistero, come ben evidenziano i margini del dipinto, i quali intensificano la percezione di una realtà incorporea, materia nebulizzata che si sfalda in visioni atmosferiche. Come fossero intrisi di nebbie e vapori, i dipinti sono permeati da velature e sfocature, striature e tache en expansion; i colori si smaterializzano fino a trasformare il supporto in uno spazio sconfinato. Uno spazio vis[su]to non tanto in superficie, quanto semmai dall’interno. Alla continua ricerca di una definizione spaziale, l’artista scandaglia il rapporto tra superficie-colore per creare danze in punta di pennello. Eteree e leggere, le opere instillano nello spettatore un atteggiamento di meditazione e riflessione.
L’artista [si] misura continuamente [con] gli spazi. Concepita come una “crittografia dell’ordine spaziale”, la partitura cromatica di Rögler è circonfusa di limpida emotività. Assecondando sia il tecnicismo sia il lirismo, l’artista ha raggiunto un’assiologia basata sui valori minimi del pigmento, nel tentativo di rifare/ridefinire la trama della tela. Sottoposti a segrete corrispondenze e delicati equilibri, i colori vengono assorbiti all’interno della superficie, dando forma alla cosa stessa, cioè la pittura. Al’idea stessa della pittura! Che cosa sia quest’idea ce lo spiega Mark Rothko: «L’evoluzione del lavoro di un pittore, nel suo spostarsi da un punto all’altro nel tempo e nello spazio, ha come obiettivo la chiarezza. Ossia l’eliminazione di tutti gli ostacoli tra il pittore e l’idea, e tra l’idea e l’osservatore. Cito tra i vari ostacoli, il ricordo, la storia e la geometria. In essi ristagnano innumerevoli generalizzazioni, da cui si potrà forse estrarre la parodia di un’idea, il suo fantasma, ma mai l’idea stessa. Se il pittore raggiunge questa chiarezza sarà, necessariamente, compreso».
Transitando da un paesaggio naturale verso uno spazio neutrale, il non-loci di Michael Rögler impone all’opera un rapporto trascendentale con il mondo, nutrendo la speranza di commutare la tabula rasa in una tabula picta. I colori diventano “apparizioni” che l’artista intercetta per nutrire la propria arte; grazie a una perpetua costanza (e sostanza pittorica) i dipinti si susseguono come le pagine di un inarrestabile monologo/monocromo autobiografico. La fluida essenza di questo continuum diventa sempre più intima e assorta, stupefacente eppur sfuggente con il passare degli anni. In perpetuo e vorticoso divenire, essa cerca il nucleo fondante del perfezionismo che si trova alla fonte della vita.